Il Cervino

Il Cervino
Cervino dalla Rothornhutte

mercoledì 7 dicembre 2011

L'Eiger dalla Mittellegi

Geoffrey Winthrop Young scrisse che un alpinista oltre ad avere il coraggio delle proprie azioni, dovrebbe avere anche il coraggio delle proprie emozioni.

Quando mio padre morì, tra le tante lettere ricevute ne lessi una di cui ancora oggi serbo il ricordo. Era un pensiero scritto da una ragazza, una semplice conoscente che si serviva abitualmente presso il nostro negozio e che aveva perso il padre in tenera età. Con poche e semplici parole ringraziava, per l’ultima volta, mio padre di averle semplicemente insegnato che nella vita, anche quando le nubi più grigie sembrano oscurare il cielo, in altro, al di sopra di tutto, risplende sempre il sole.
Ed ora, che con gli sci ai piedi salgo il ripido pendio che ho davanti, seguito da Daniela, mi torna in mente quell’allegoria, i momenti difficili, gli ostacoli da superare, le incognite che riserva l’esistenza, mentre di fronte, indietro e ai miei lati la nebbia non lascia più intravedere niente, e se non fosse per le lievi tracce di passaggio che rigano il manto nevoso me ne sarei già tornato indietro.
Eppure proseguiamo a testa bassa, come due muli testardi, con passo regolare e schiena ricurva senza parlare, senza lamentarci, perché questo dialogo con l’infinito non necessita di troppe parole.
Ogni tanto mi volto indietro, a malapena scorgo la sagoma di due sci-alpinisti che a poca distanza ci seguono. Sono due biellesi che alla partenza ci avevano interrogato sul percorso da seguire per il Mombarone. Hanno un incedere insicuro perché ogni tanto sostano, si guardano intorno, si consultano e poi tornano a salire controvoglia. Credo che proseguano solo perché davanti a loro ci siamo noi a  battere la pista.
E’ mattina, ma sembra quasi che venga notte. Non si distingue più il cielo dalla terra perché un muro livido sbarra la vista, incanta gli occhi, appesantisce il morale. Ogni tanto riconosco qualche masso per la stranezza della forma o per la particolare posizione. Intorno, il silenzio, l’aria immobile, pesante, satura di vapore acqueo. Ad una piazzola mi fermo, siedo sulle rocce fradice, bevo mentre spingo inutilmente lo sguardo nel grigiore. Una cresta mi appare, poi svanisce e ritorna il vuoto. Non scorgo più nulla.
Eppure, da qui, con il bel tempo è tutta un’altra cosa, si gode un panorama eccezionale sulla pianura canavesana, sul vercellese, fin alle estreme propaggini in cui le Alpi sposano l’Appennino. In inverno poi, questo spettacolo è reso ancor più bello da un leggero velo di nebbie azzurrognole schiacciate sulle risaie, mentre in alto il cielo è di cobalto.
Chiudo le palpebre inumidite, appoggio i gomiti sulle ginocchia e in quell’atmosfera opprimente inizio a pensare, riflettere, ricordare…

Quando il vento cessò, i raggi del sole ripresero a scaldarmi il volto e quella piacevole sensazione mi spinse ad aprire pigramente gli occhi. Ero al centro di una formidabile giogaia di creste, pareti di roccia e di ghiaccio si innalzavano vertiginose, mentre in basso enormi seracchi giacevano come palazzi accartocciati. Osservavo senza un ordine preciso il complesso panorama, ne percorrevo lentamente il profilo irregolare, gli speroni ed i canali più nascosti alla ricerca di fantasiosi itinerari, di segreti ancora da svelare.
La selvaggia natura dell’Oberland nascondeva bellezze indescrivibili, ardue vie di salita, storie di uomini, sconfitte, vittorie, ed anche un’incombente presenza: lo svelto profilo, il nome, ma soprattutto la fama della montagna che intendevo scalare.
Per la prima volta toccavo con mano le rocce dell’Eiger, da tempo desideravo conoscerlo da vicino, lo avevo salutato dalla vetta della Jungfrau, dai pascoli di Grindenwald, dalla Kleine Scheidegg, sotto i mille ottocento metri della parete nord, ma non ne conoscevo il versante orientale, nascosto alla vista dei tanti turisti che salgono allo Sphinx.
Di quel lato possedevo soltanto un’immagine: una fotografia in bianco e nero scattata dal Mettenberg il 21 luglio del 1886, allegata come tavola fuori testo al celebre libro di Lammer: Fontana di Giovinezza; l’Eiger appare in primo piano, collegato al Monch dalla cresta sud-ovest. Al centro della montagna uno spigolo gigantesco: la cresta Mittellegi.
Dalla stazione di Eissmeer un controllore ci aveva indicato la porta che dava accesso ai tunnel di servizio della ferrovia, eravamo scesi nelle umide gallerie scavate nella roccia per poi sbucare da un foro nella parete, qualche metro sopra il tormentato ghiacciaio di Fiescher. Ci calammo nella conca glaciale. Dal basso, in mezzo ai seracchi, le possenti muraglie che delimitavano l’aspro catino ci parevano ancora più minacciose. Più lontano le creste dello Schreckhorn e del Lauteraarhorn chiudevano ad occidente quell’angolo di severe montagne. Superammo in diagonale un ampia parete di rocce sfaldate, da una cengia verso l’altra salimmo al nostro rifugio.
Trascorsi circa quattro ore sul ballatoio della Mittellegihutte; seduto  a terra con la schiena appoggiata alle tiepide scaglie di legno che ricoprivano le pareti della piccola capanna. Immerso nel silenzio delle vette approfittai di quella lunga attesa del custode per meditare, ragionare, analizzare i molti interrogativi che da tempo mi ero posto circa il senso della nostra esistenza.
Lontano dalle comodità, dalla tecnologia, dalla “civiltà”, la semplicità dei gesti educava all’umiltà dell’intelletto, spazzava ogni residuo pregiudizio mentale, apriva il cuore ad un autentico amore per la montagna.
La scienza imparata sui banchi di scuola zoppicava tra le rocce, scivolava sul ghiaccio, rischiava ad ogni passo di essere inghiottita dal vuoto.
Tra polverosi scaffali, nell’atmosfera ovattata di una biblioteca, occhialuti professori mi avrebbero fornito un teorema, citato una massima, decantato un verso, poi compiaciuti della propria scienza sarebbero sprofondati in una comoda poltrona, ma qui, tra la roccia ed il ghiaccio non ci si poteva nascondere tra le pieghe di un libro, occorreva indagare, osservare, ascoltare l’anelito trascendente delle altezze, il vuoto spalancato nell’abisso, l’orizzonte svettante delle creste circonfuse di luce.
Vivere la montagna nel suo più autentico significato, ricercare un punto di equilibrio, stabilire un rapporto armonico con se stessi, l’universo naturale e quello soprannaturale, ecco la ricerca che ogni alpinista dovrebbe condurre tra un passo e l’altro verso la meta.
Douglas William Freschfield nel descrivere le sensazioni provate dalla cima di una montagna precisò che I nostri polsi battono all’unisono col grande polso della Vita che respira attorno a noi. Smarriamo noi stessi e diventiamo parte del grande ordine entro la presenza visibile del quale ci sembra di essere stati per un breve spazio di tempo trasformati. (…) Dal suo altero piedistallo la mente si sente in armonia con l’anima dell’universo e pensa quasi di poter gettare uno sguardo nel suo intimo lavoro. L’anima dell’universo… Quanti la riconoscono, quanti si sentono con essa in  perfetta armonia? L’uomo del nostro millennio porta con sé più che mai i segni di quella lacerazione interiore che Lammer denunciò all’alba del novecento quando, in un suo scritto, si rivolse a voi, che, stanchi di tutta la lacerazione interiore, vi dedicate alla montagna con tutto il vostro essere e i vostri sforzi, agognate a restare totali o a divenire totalità come sono le Alpi.
Nel meriggio assolato, prima che altri alpinisti giungessero a rompere la calma mi sporsi dal vertiginoso ballatoio sospeso sulla parete che qualche ora prima avevo scalato; in quella grande superficie rugosa si distinguevano due puntini scuri, l’uno vicino all’altro, procedere con fatica.
Pensai alla piccolezza dell’uomo, appiccicato come un insetto a quel grande muro grigio, alla solenne grandezza della montagna, a quanti non ne comprendono il senso, l’essenza, l’anima e ne rifiutano il confronto, ne osteggiano la pratica.
Intanto i due puntini si avvicinarono al rifugio, ora ne distinguevo i colori dei vestiti, i gesti e le voci.
- Perché c’è l’essere e non il nulla? – Si domandò Liebniz. Guardai quei due bipedi carichi come quadrupedi e me lo chiesi anche io. 
Rimasi con quella domanda in mente, non potevo cercare tra i libri della mia biblioteca spunti per una risposta, per quella volta mi limitai semplicemente a contemplare le grandi pareti, i baratri spaventosi, i picchi nascosti tra le nebbie.
Più volte ripensai a quegli attimi di intima comunione con il creato, e l’immagine grandiosa delle montagne mi tornò in mente ogni qualvolta, nella pace del mio studio,  tra le pagine dell’Iperione, lessi un celebre passo: essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, questo è il cielo dell’uomo.
Ed il cielo stetti ad osservare: limpido, azzurro, infinito, specchio di un’altra dimensione, custode di ogni verità suprema.
Poi volsi lo sguardo più in basso, tra le valli, i paesi, le case, e pensai alla mia città lontana, alle tante città del mondo, ai grandi centri, moderni formicai, dove un’umanità distratta si agita giorno e notte. Pensai alla nostra civiltà presuntuosa ed opulenta con la vista ed il fiato corto.
Mi sentivo mentalmente lontano dalla vita metropolitana, dove non c’è mai tempo per parlare, per riflettere, dove le parole sono coperte dal rombo delle automobili e i pensieri interrotti dallo squillo di un telefono, dove lo sguardo è fisso alle scadenze,  dove si respira aria condizionata, dove l’erba e le foglie sono di plastica, dove l’unico cielo che si vede è grigio, a strisce, tra i balconi dei palazzi.
Qui invece respiravo aria pulita, liberi erano i pensieri. Qui, come scrisse Albrecht Von Haller in Die Alpen, accademici non mercanteggiano le loro carte, non si misurano le distanze tra Atene o Roma. La ragione non è costretta in regole scolastiche, e nessuno indica al sole la linea da seguire. Ingegno!, inutile trastullo del sapiente, che conosce l’architettura dell’universo e muore ignoto a se stesso. Il suo desiderio, non governato, si corrompe, l’arte lo educa alla nausea per il proprio stato. Ma qui la natura ha posto la scienza della vita nel cuore, e non nell’intelletto dell’uomo.
Giunsero nel frattempo alcuni alpinisti e con essi, finalmente, la cuoca-custode. Presto la piccola capanna divenne troppo stretta per tutti, così tornai sul ballatoio e mi sedetti accanto al fornello sul quale bolliva un pentolone per la cena.
Intanto il cielo, lentamente, cambiava colore. L’ombra delle vette si allungava e una brezza frizzante cominciò a scuotere la bandiera con l’orso bernese.
Mi sporsi verso nord per vedere la parete nevosa tingersi dei colori del tramonto. Quando mi voltai, verso il Finsterarhorn, le vette più alte, come tanta fiammelle, rilucevano gli ultimi raggi del sole.
Non c’era molto spazio per passeggiare. I pochi metri di larghezza della cresta mi davano l’impressione di navigare sulle dolci colline di Grindenwald, mentre lo spigolo del Wetterhorn fendeva le nebbie come la prua di una nave.
Le luci del tramonto si erano ormai spente, in basso rilucevano i lampioni della Kleine scheidegg e di Grindenwald, intorno le vette dormivano con le loro grandi pareti scure.
Tutte queste cime che vedete sono un simbolo dello sforzo eterno e dell’aspirazione verso l’alto: ogni montagna è come qualche cosa d’incompiuto, accenna a qualche cosa ancora più alto sopra di sé, scrisse Lammer, indicando le montagne ad un gruppo di giovani allievi. In mezzo a quella selva di cime, dalle forme più diverse, prendevo atto della mia incompiutezza spirituale, di quel bisogno di ricerca istintivo  che spinge corpo ed anima verso l’ascesa del monte. 
La scalata è l’ascesi, scrisse Chappaz.
C’erano altri alpinisti vicino a me, con i gomiti appoggiati alla balaustra in legno, osservavano taciturni l’orizzonte. Chissà quanti altri ce n’erano, sparsi nei tanti rifugi delle Alpi, in una serata così bella, intenti ad osservare il panorama. Immaginai quella folla taciturna e mi chiesi:  - cosa cerca l’uomo in quell’orizzonte frastagliato, irregolare, sconnesso? -  L’alpinismo cambia con le epoche, segue l’evoluzione tecnica e sociale, ha valore, profondità, significati diversi per ognuno. Nella pluralità degli approcci, delle interpretazioni e delle realizzazioni di ogni alpinista, uno solo dovrebbe essere l’obiettivo: l’elevazione, l’ascesi spirituale e corporale dell’uomo-alpinista.
Ma, al giorno d’oggi ha ancora senso parlare di elevazione spirituale, quando l’attenzione dei singoli e dei gruppi che praticano l’alpinismo tende ad evidenziarne soltanto gli aspetti tecnici e ludici? Freeride d’inverno, Free-climbing d’estate, ma cosa resta della montagna, di quell’intimo rapporto che si costruisce con essa durante un’ascensione? La commercializzazione della montagna ha compiuto passi da gigante. Quale differenza tra Whymper… tra un rocciatore e un impiegato se la coscienza è la stessa?
Chiusi la porta del rifugio alle mie spalle, sedetti sulla panca di legno nel dormitorio ed attesi con due amici francesi il turno per la cena.
Una volta a tavola mi accorsi quanto grande fosse il divario tra la bellezza del paesaggio e la qualità della cucina svizzera. Anche il trattamento che ricevemmo, in quanto italiani, si accordò perfettamente alle doti culinarie della teutonica cuoca.
Non cademmo nella tentazione di polemizzare, prendemmo quello che il convento passava con calma e rassegnazione cenammo per ultimi, come si conviene all’ospitalità che gli svizzeri riservano ai forestieri.
Con i cugini d’oltralpe dividemmo gioiosamente il nostro destino e la pasta scotta.
Ripagammo i padroni di casa l’indomani, quando ad uno ad uno li superammo incuranti delle loro incomprensibili lamentele.
Quella notte non ebbi tempo di dormire, troppi erano i pensieri, ed il desiderio di salire, di muovermi, di aggrapparmi ad un appiglio mi costringeva a cambiare posizione di continuo. Quando ci levammo dal nostro giaciglio eravamo già svegli da un pezzo, saltammo in piedi come molle appena le guide svizzere ed i loro privilegiati clienti ebbero finito la colazione.
Pane, burro e marmellata, una tazza fumante, presi lo zaino e senza perdere tempo andai fuori ad allacciarmi i ramponi. La grande cresta ci attendeva, avvolta nella tenue luce dell’aurora. Uno strato di neve ne ricopriva le rocce meno inclinate. Sfruttammo le impronte di un paio di cordate che il giorno precedente ebbero il coraggio di compiere la traversata con la neve non ancora trasformata. Le avevamo ancora viste nel pomeriggio, verso le cinque, all’altezza dei Colli dell’Eiger. Il rigelo notturno ci favoriva, ci trovammo con la strada completamente tracciata. In breve tempo raggiungemmo le cordate tedesche e svizzere. Le superammo effettuando qualche piccola variante sui primi risalti. Procedemmo alla volta del settore più verticale della nostra salita. Un duro passaggio lo trovammo attrezzato con una fune penzolante dall’alto. A dire di Gianni quel passaggio, senza l’aiuto del canapo, avrebbe fatto piangere più di un alpinista quel giorno.
Intanto i primi raggi del sole spuntarono tra lo Steckhorn e il Lauteraarhorn e ci raggiunsero alla base del grande risalto finale, un alto spigolo che si innalzava vertiginoso alla volta delle cornici sommitali. Sostammo un attimo per fotografare le nostre ombre proiettate sulla roccia illuminata dal sole mattutino. Procedemmo in silenzio tra le increspature della roccia, ne leggemmo le rughe, ne interpretammo i passaggi. Una breve calata e ci trovammo immersi nella pace invernale della parete nord-est. La neve e le rocce erano impregnate di una luce azzurrognola, procedemmo con cautela. Gobbe di vetrato rendevano insidiose le manovre, l’aria gelida induriva le mani, spezzava le parole. Nel ghiaccio ci facemmo strada a colpi di piccozza tra una pioggia di schegge impazzite. Risalimmo una specie di canalino ingombro di rocce inchiodate dal gelo, mentre alla nostra desta un’impressionante scivolo bianco saliva diritto verso la vetta. Rimasi colpito dall’evidente contrasto di luci tra il soleggiato versante roccioso e l’ombrosa parete ghiacciata. Luci ed atmosfere che ritrovai leggendo, un giorno, nell’Alta Via di Chappaz:
E ci sono le rocce. Inciampo in un’azzurrognola verticalità, che prende dall’acciaio e dalla seta; quelle masse fanno pensare alla trasparenza. Quell’enorme mano con la rientranza delle dita: altissimo il getto delle torri. Non è una mano, è uno spazio. Ci sono il cielo e quella crosta ghiacciata, la grande muraglia con le lontane lunule delle cornici. Il cielo d’altronde non è che una montagna (di azzurro) bloccata contro la muraglia e una fuga di gigantesche cupole, di seni bianchi che sporgono e girano con un fumo di neve come un lichene solare.
Terminarono le rocce, ci congiungemmo all’uscita della via Lauper, e procedemmo sulle cornici  nevose che precedono la vetta. Man mano che avanzavo la cresta si faceva sempre più sottile, tanto da non permettere di unire i piedi. Una volta superato anche il tratto più aereo, mi volsi per vedere i due francesi fare gli equilibristi nel vuoto, mentre sullo sfondo, veli di nebbia avvolgevano il capo del Wetterhorn.
Tra queste imponenti montagne, dove l’audacia e l’imprudenza di Lammer entrarono nella storia riconobbi il monito severo, l’invito accorato da egli rivolto ai giovani alpinisti che poco più tardi vennero inghiottiti nel folle vortice di una guerra suicida.
Il nostro tempio è quassù: torreggia su pilastri colossali di granito, dall’eternità per l’eternità. Liberamente si curva su di esso come tetto l’etere infinito, verso di noi dall’altare raggiano l’antico luminare del cielo e le costellazioni.
Ed in quel tempio immacolato mi misi a pregare in silenzio, a ringraziare Dio per avermi donato una sì grande fortuna. Mi accovacciai un attimo, Gianni mi scattò una fotografia, ero finalmente sull’Eiger.
Restammo un attimo sulla vetta ad osservare il cono d’ombra della montagna stendersi sui prati della Kleine Sheidegg. Non scendemmo dalla via normale perché,  da quanto avevamo letto, era considerata troppo esposta ai pericoli oggettivi. Optammo per la cresta sud-ovest, abbastanza affilata, ma notevolmente più solida e sicura.  Vapori leggeri risalivano il versante meridionale mentre un sole impietoso cuoceva la neve sotto i colli dell’Eiger.
Caldo, fatica, cornici di ghiaccio, roccia affilata, l’ultimo colle e la stretta di mano con gli amici francesi. Scendemmo sulle dolci distese di ghiaccio, sotto la parete est del Monch che pareva un candido lenzuolo appeso nel cielo terso. Ora potevamo anche dialogare, allentare la tensione, sciogliere i muscoli nella lieve pendenza. Sapevo che quella sarebbe stata forse l’ultima ascensione che avrei compiuto quell’anno. Tre ore erano trascorse da quando avevamo raggiunto la vetta, circa sei dal momento in cui eravamo usciti dal nostro rifugio, eppure un velo di nostalgia balenò tra i miei pensieri, la  paura di non poter più rivivere simili emozioni, l’ansia di non riuscire a realizzare altri sogni. Ma fu soltanto un attimo, la voce di Gianni mi scosse. – Conta  il presente, perché rovinarlo con la nostalgia del passato o le apprensioni per il futuro? -  Eravamo lì, nel bel mezzo di un  ghiacciaio che si stendeva in piano per qualche chilometro, liscio, immenso, al centro un puntino arancione: una piccola tenda di nomadi delle montagne, tutto intorno le grandi vette dell’Oberland splendenti nel sole, perché rattristarsi? Risalimmo il Monchjoch sotto un sole cocente. Al valico incontrammo il rifugio, alpinisti, turisti, voli a noleggio e traversate tirolesi, poi l’imbocco della galleria allo Sphinx, negozi, sponsor e bandierine svizzera in ogni angolo. - Non c’era più tempo per meditare, ormai bisognava correre, mettersi in fila e non perdere il treno…
In un attimo scendemmo alla Kleine scheidegg. Ondate di aria calda salivano dai marciapiedi, folle di turisti sgomitavano. Nel vociare indistinto incalzavano le domande di turisti giapponesi avidi di dettagli sulla nostra ascensione. Cercai ancora un attimo di pace, poco discosto dalla ressa. Tra gli ombrelloni colorati dei bar alzai gli occhi verso l’Eiger, ne risalii la terribile parete con gli occhi fino ad incontrare il candido profilo delle creste sommitali e per un attimo restai, come sulla vetta, in silenzio ad osservarne il vasto orizzonte.

Respiro aria umida mentre strofino le mani gelate. Sembra non esserci più alcun motivo che mi inviti a proseguire. I due sci alpinisti presto ci raggiungono. Intorno ad un grosso masso sediamo in consiglio. Loro intendono tornare, noi proseguire. Non aggiungiamo altre parole alle opposte vedute, ci salutiamo cordialmente prima di essere reciprocamente inghiottiti dalla nebbia.
Aumentiamo il ritmo, il crocchiare della neve sotto i nostri passi rompe il silenzio, folate d’aria gelida mi appiccicano al corpo gli indumenti.
Sulla candida steppa qualche rara chiazza di luce illumina sbuffi di neve. Pieghiamo verso il crinale che conduce alla vetta. Nel cielo compare un disco appannato. Osservo un caotico ondeggiare di  nubi. Ancora folate, improvvise, pungenti come aghi sul volto. Le nebbie si fondono, si assottigliano, evaporano nell’azzurro del cielo mentre il sole irrompe sul manto nevoso. Un varco tra le nubi incornicia  vette imbiancate, d’azzurro si tinge il grigiore, l’estremo crinale nasconde l’abisso e noi, soli sulla cima, l’uno accanto all’altra, stendiamo i nostri sguardi su un mare di nebbie in tumulto.
Immergersi nel silenzio, abbracciare l’orizzonte con uno sguardo, respirare l’azzurro… essere uno con tutto ciò che ha vita, fare ritorno, in una beata dimenticanza di sé, nel tutto della natura: ecco il vertice dei pensieri e delle gioie, la sacra vetta del monte, il luogo della quiete perenne, dove il meriggio perde la calura e il tuono perde la sua voce; dove il mare ribollente somiglia all’ondeggiare di un campo di spighe.