Il Cervino

Il Cervino
Cervino dalla Rothornhutte

mercoledì 7 dicembre 2011

L'Eiger dalla Mittellegi

Geoffrey Winthrop Young scrisse che un alpinista oltre ad avere il coraggio delle proprie azioni, dovrebbe avere anche il coraggio delle proprie emozioni.

Quando mio padre morì, tra le tante lettere ricevute ne lessi una di cui ancora oggi serbo il ricordo. Era un pensiero scritto da una ragazza, una semplice conoscente che si serviva abitualmente presso il nostro negozio e che aveva perso il padre in tenera età. Con poche e semplici parole ringraziava, per l’ultima volta, mio padre di averle semplicemente insegnato che nella vita, anche quando le nubi più grigie sembrano oscurare il cielo, in altro, al di sopra di tutto, risplende sempre il sole.
Ed ora, che con gli sci ai piedi salgo il ripido pendio che ho davanti, seguito da Daniela, mi torna in mente quell’allegoria, i momenti difficili, gli ostacoli da superare, le incognite che riserva l’esistenza, mentre di fronte, indietro e ai miei lati la nebbia non lascia più intravedere niente, e se non fosse per le lievi tracce di passaggio che rigano il manto nevoso me ne sarei già tornato indietro.
Eppure proseguiamo a testa bassa, come due muli testardi, con passo regolare e schiena ricurva senza parlare, senza lamentarci, perché questo dialogo con l’infinito non necessita di troppe parole.
Ogni tanto mi volto indietro, a malapena scorgo la sagoma di due sci-alpinisti che a poca distanza ci seguono. Sono due biellesi che alla partenza ci avevano interrogato sul percorso da seguire per il Mombarone. Hanno un incedere insicuro perché ogni tanto sostano, si guardano intorno, si consultano e poi tornano a salire controvoglia. Credo che proseguano solo perché davanti a loro ci siamo noi a  battere la pista.
E’ mattina, ma sembra quasi che venga notte. Non si distingue più il cielo dalla terra perché un muro livido sbarra la vista, incanta gli occhi, appesantisce il morale. Ogni tanto riconosco qualche masso per la stranezza della forma o per la particolare posizione. Intorno, il silenzio, l’aria immobile, pesante, satura di vapore acqueo. Ad una piazzola mi fermo, siedo sulle rocce fradice, bevo mentre spingo inutilmente lo sguardo nel grigiore. Una cresta mi appare, poi svanisce e ritorna il vuoto. Non scorgo più nulla.
Eppure, da qui, con il bel tempo è tutta un’altra cosa, si gode un panorama eccezionale sulla pianura canavesana, sul vercellese, fin alle estreme propaggini in cui le Alpi sposano l’Appennino. In inverno poi, questo spettacolo è reso ancor più bello da un leggero velo di nebbie azzurrognole schiacciate sulle risaie, mentre in alto il cielo è di cobalto.
Chiudo le palpebre inumidite, appoggio i gomiti sulle ginocchia e in quell’atmosfera opprimente inizio a pensare, riflettere, ricordare…

Quando il vento cessò, i raggi del sole ripresero a scaldarmi il volto e quella piacevole sensazione mi spinse ad aprire pigramente gli occhi. Ero al centro di una formidabile giogaia di creste, pareti di roccia e di ghiaccio si innalzavano vertiginose, mentre in basso enormi seracchi giacevano come palazzi accartocciati. Osservavo senza un ordine preciso il complesso panorama, ne percorrevo lentamente il profilo irregolare, gli speroni ed i canali più nascosti alla ricerca di fantasiosi itinerari, di segreti ancora da svelare.
La selvaggia natura dell’Oberland nascondeva bellezze indescrivibili, ardue vie di salita, storie di uomini, sconfitte, vittorie, ed anche un’incombente presenza: lo svelto profilo, il nome, ma soprattutto la fama della montagna che intendevo scalare.
Per la prima volta toccavo con mano le rocce dell’Eiger, da tempo desideravo conoscerlo da vicino, lo avevo salutato dalla vetta della Jungfrau, dai pascoli di Grindenwald, dalla Kleine Scheidegg, sotto i mille ottocento metri della parete nord, ma non ne conoscevo il versante orientale, nascosto alla vista dei tanti turisti che salgono allo Sphinx.
Di quel lato possedevo soltanto un’immagine: una fotografia in bianco e nero scattata dal Mettenberg il 21 luglio del 1886, allegata come tavola fuori testo al celebre libro di Lammer: Fontana di Giovinezza; l’Eiger appare in primo piano, collegato al Monch dalla cresta sud-ovest. Al centro della montagna uno spigolo gigantesco: la cresta Mittellegi.
Dalla stazione di Eissmeer un controllore ci aveva indicato la porta che dava accesso ai tunnel di servizio della ferrovia, eravamo scesi nelle umide gallerie scavate nella roccia per poi sbucare da un foro nella parete, qualche metro sopra il tormentato ghiacciaio di Fiescher. Ci calammo nella conca glaciale. Dal basso, in mezzo ai seracchi, le possenti muraglie che delimitavano l’aspro catino ci parevano ancora più minacciose. Più lontano le creste dello Schreckhorn e del Lauteraarhorn chiudevano ad occidente quell’angolo di severe montagne. Superammo in diagonale un ampia parete di rocce sfaldate, da una cengia verso l’altra salimmo al nostro rifugio.
Trascorsi circa quattro ore sul ballatoio della Mittellegihutte; seduto  a terra con la schiena appoggiata alle tiepide scaglie di legno che ricoprivano le pareti della piccola capanna. Immerso nel silenzio delle vette approfittai di quella lunga attesa del custode per meditare, ragionare, analizzare i molti interrogativi che da tempo mi ero posto circa il senso della nostra esistenza.
Lontano dalle comodità, dalla tecnologia, dalla “civiltà”, la semplicità dei gesti educava all’umiltà dell’intelletto, spazzava ogni residuo pregiudizio mentale, apriva il cuore ad un autentico amore per la montagna.
La scienza imparata sui banchi di scuola zoppicava tra le rocce, scivolava sul ghiaccio, rischiava ad ogni passo di essere inghiottita dal vuoto.
Tra polverosi scaffali, nell’atmosfera ovattata di una biblioteca, occhialuti professori mi avrebbero fornito un teorema, citato una massima, decantato un verso, poi compiaciuti della propria scienza sarebbero sprofondati in una comoda poltrona, ma qui, tra la roccia ed il ghiaccio non ci si poteva nascondere tra le pieghe di un libro, occorreva indagare, osservare, ascoltare l’anelito trascendente delle altezze, il vuoto spalancato nell’abisso, l’orizzonte svettante delle creste circonfuse di luce.
Vivere la montagna nel suo più autentico significato, ricercare un punto di equilibrio, stabilire un rapporto armonico con se stessi, l’universo naturale e quello soprannaturale, ecco la ricerca che ogni alpinista dovrebbe condurre tra un passo e l’altro verso la meta.
Douglas William Freschfield nel descrivere le sensazioni provate dalla cima di una montagna precisò che I nostri polsi battono all’unisono col grande polso della Vita che respira attorno a noi. Smarriamo noi stessi e diventiamo parte del grande ordine entro la presenza visibile del quale ci sembra di essere stati per un breve spazio di tempo trasformati. (…) Dal suo altero piedistallo la mente si sente in armonia con l’anima dell’universo e pensa quasi di poter gettare uno sguardo nel suo intimo lavoro. L’anima dell’universo… Quanti la riconoscono, quanti si sentono con essa in  perfetta armonia? L’uomo del nostro millennio porta con sé più che mai i segni di quella lacerazione interiore che Lammer denunciò all’alba del novecento quando, in un suo scritto, si rivolse a voi, che, stanchi di tutta la lacerazione interiore, vi dedicate alla montagna con tutto il vostro essere e i vostri sforzi, agognate a restare totali o a divenire totalità come sono le Alpi.
Nel meriggio assolato, prima che altri alpinisti giungessero a rompere la calma mi sporsi dal vertiginoso ballatoio sospeso sulla parete che qualche ora prima avevo scalato; in quella grande superficie rugosa si distinguevano due puntini scuri, l’uno vicino all’altro, procedere con fatica.
Pensai alla piccolezza dell’uomo, appiccicato come un insetto a quel grande muro grigio, alla solenne grandezza della montagna, a quanti non ne comprendono il senso, l’essenza, l’anima e ne rifiutano il confronto, ne osteggiano la pratica.
Intanto i due puntini si avvicinarono al rifugio, ora ne distinguevo i colori dei vestiti, i gesti e le voci.
- Perché c’è l’essere e non il nulla? – Si domandò Liebniz. Guardai quei due bipedi carichi come quadrupedi e me lo chiesi anche io. 
Rimasi con quella domanda in mente, non potevo cercare tra i libri della mia biblioteca spunti per una risposta, per quella volta mi limitai semplicemente a contemplare le grandi pareti, i baratri spaventosi, i picchi nascosti tra le nebbie.
Più volte ripensai a quegli attimi di intima comunione con il creato, e l’immagine grandiosa delle montagne mi tornò in mente ogni qualvolta, nella pace del mio studio,  tra le pagine dell’Iperione, lessi un celebre passo: essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, questo è il cielo dell’uomo.
Ed il cielo stetti ad osservare: limpido, azzurro, infinito, specchio di un’altra dimensione, custode di ogni verità suprema.
Poi volsi lo sguardo più in basso, tra le valli, i paesi, le case, e pensai alla mia città lontana, alle tante città del mondo, ai grandi centri, moderni formicai, dove un’umanità distratta si agita giorno e notte. Pensai alla nostra civiltà presuntuosa ed opulenta con la vista ed il fiato corto.
Mi sentivo mentalmente lontano dalla vita metropolitana, dove non c’è mai tempo per parlare, per riflettere, dove le parole sono coperte dal rombo delle automobili e i pensieri interrotti dallo squillo di un telefono, dove lo sguardo è fisso alle scadenze,  dove si respira aria condizionata, dove l’erba e le foglie sono di plastica, dove l’unico cielo che si vede è grigio, a strisce, tra i balconi dei palazzi.
Qui invece respiravo aria pulita, liberi erano i pensieri. Qui, come scrisse Albrecht Von Haller in Die Alpen, accademici non mercanteggiano le loro carte, non si misurano le distanze tra Atene o Roma. La ragione non è costretta in regole scolastiche, e nessuno indica al sole la linea da seguire. Ingegno!, inutile trastullo del sapiente, che conosce l’architettura dell’universo e muore ignoto a se stesso. Il suo desiderio, non governato, si corrompe, l’arte lo educa alla nausea per il proprio stato. Ma qui la natura ha posto la scienza della vita nel cuore, e non nell’intelletto dell’uomo.
Giunsero nel frattempo alcuni alpinisti e con essi, finalmente, la cuoca-custode. Presto la piccola capanna divenne troppo stretta per tutti, così tornai sul ballatoio e mi sedetti accanto al fornello sul quale bolliva un pentolone per la cena.
Intanto il cielo, lentamente, cambiava colore. L’ombra delle vette si allungava e una brezza frizzante cominciò a scuotere la bandiera con l’orso bernese.
Mi sporsi verso nord per vedere la parete nevosa tingersi dei colori del tramonto. Quando mi voltai, verso il Finsterarhorn, le vette più alte, come tanta fiammelle, rilucevano gli ultimi raggi del sole.
Non c’era molto spazio per passeggiare. I pochi metri di larghezza della cresta mi davano l’impressione di navigare sulle dolci colline di Grindenwald, mentre lo spigolo del Wetterhorn fendeva le nebbie come la prua di una nave.
Le luci del tramonto si erano ormai spente, in basso rilucevano i lampioni della Kleine scheidegg e di Grindenwald, intorno le vette dormivano con le loro grandi pareti scure.
Tutte queste cime che vedete sono un simbolo dello sforzo eterno e dell’aspirazione verso l’alto: ogni montagna è come qualche cosa d’incompiuto, accenna a qualche cosa ancora più alto sopra di sé, scrisse Lammer, indicando le montagne ad un gruppo di giovani allievi. In mezzo a quella selva di cime, dalle forme più diverse, prendevo atto della mia incompiutezza spirituale, di quel bisogno di ricerca istintivo  che spinge corpo ed anima verso l’ascesa del monte. 
La scalata è l’ascesi, scrisse Chappaz.
C’erano altri alpinisti vicino a me, con i gomiti appoggiati alla balaustra in legno, osservavano taciturni l’orizzonte. Chissà quanti altri ce n’erano, sparsi nei tanti rifugi delle Alpi, in una serata così bella, intenti ad osservare il panorama. Immaginai quella folla taciturna e mi chiesi:  - cosa cerca l’uomo in quell’orizzonte frastagliato, irregolare, sconnesso? -  L’alpinismo cambia con le epoche, segue l’evoluzione tecnica e sociale, ha valore, profondità, significati diversi per ognuno. Nella pluralità degli approcci, delle interpretazioni e delle realizzazioni di ogni alpinista, uno solo dovrebbe essere l’obiettivo: l’elevazione, l’ascesi spirituale e corporale dell’uomo-alpinista.
Ma, al giorno d’oggi ha ancora senso parlare di elevazione spirituale, quando l’attenzione dei singoli e dei gruppi che praticano l’alpinismo tende ad evidenziarne soltanto gli aspetti tecnici e ludici? Freeride d’inverno, Free-climbing d’estate, ma cosa resta della montagna, di quell’intimo rapporto che si costruisce con essa durante un’ascensione? La commercializzazione della montagna ha compiuto passi da gigante. Quale differenza tra Whymper… tra un rocciatore e un impiegato se la coscienza è la stessa?
Chiusi la porta del rifugio alle mie spalle, sedetti sulla panca di legno nel dormitorio ed attesi con due amici francesi il turno per la cena.
Una volta a tavola mi accorsi quanto grande fosse il divario tra la bellezza del paesaggio e la qualità della cucina svizzera. Anche il trattamento che ricevemmo, in quanto italiani, si accordò perfettamente alle doti culinarie della teutonica cuoca.
Non cademmo nella tentazione di polemizzare, prendemmo quello che il convento passava con calma e rassegnazione cenammo per ultimi, come si conviene all’ospitalità che gli svizzeri riservano ai forestieri.
Con i cugini d’oltralpe dividemmo gioiosamente il nostro destino e la pasta scotta.
Ripagammo i padroni di casa l’indomani, quando ad uno ad uno li superammo incuranti delle loro incomprensibili lamentele.
Quella notte non ebbi tempo di dormire, troppi erano i pensieri, ed il desiderio di salire, di muovermi, di aggrapparmi ad un appiglio mi costringeva a cambiare posizione di continuo. Quando ci levammo dal nostro giaciglio eravamo già svegli da un pezzo, saltammo in piedi come molle appena le guide svizzere ed i loro privilegiati clienti ebbero finito la colazione.
Pane, burro e marmellata, una tazza fumante, presi lo zaino e senza perdere tempo andai fuori ad allacciarmi i ramponi. La grande cresta ci attendeva, avvolta nella tenue luce dell’aurora. Uno strato di neve ne ricopriva le rocce meno inclinate. Sfruttammo le impronte di un paio di cordate che il giorno precedente ebbero il coraggio di compiere la traversata con la neve non ancora trasformata. Le avevamo ancora viste nel pomeriggio, verso le cinque, all’altezza dei Colli dell’Eiger. Il rigelo notturno ci favoriva, ci trovammo con la strada completamente tracciata. In breve tempo raggiungemmo le cordate tedesche e svizzere. Le superammo effettuando qualche piccola variante sui primi risalti. Procedemmo alla volta del settore più verticale della nostra salita. Un duro passaggio lo trovammo attrezzato con una fune penzolante dall’alto. A dire di Gianni quel passaggio, senza l’aiuto del canapo, avrebbe fatto piangere più di un alpinista quel giorno.
Intanto i primi raggi del sole spuntarono tra lo Steckhorn e il Lauteraarhorn e ci raggiunsero alla base del grande risalto finale, un alto spigolo che si innalzava vertiginoso alla volta delle cornici sommitali. Sostammo un attimo per fotografare le nostre ombre proiettate sulla roccia illuminata dal sole mattutino. Procedemmo in silenzio tra le increspature della roccia, ne leggemmo le rughe, ne interpretammo i passaggi. Una breve calata e ci trovammo immersi nella pace invernale della parete nord-est. La neve e le rocce erano impregnate di una luce azzurrognola, procedemmo con cautela. Gobbe di vetrato rendevano insidiose le manovre, l’aria gelida induriva le mani, spezzava le parole. Nel ghiaccio ci facemmo strada a colpi di piccozza tra una pioggia di schegge impazzite. Risalimmo una specie di canalino ingombro di rocce inchiodate dal gelo, mentre alla nostra desta un’impressionante scivolo bianco saliva diritto verso la vetta. Rimasi colpito dall’evidente contrasto di luci tra il soleggiato versante roccioso e l’ombrosa parete ghiacciata. Luci ed atmosfere che ritrovai leggendo, un giorno, nell’Alta Via di Chappaz:
E ci sono le rocce. Inciampo in un’azzurrognola verticalità, che prende dall’acciaio e dalla seta; quelle masse fanno pensare alla trasparenza. Quell’enorme mano con la rientranza delle dita: altissimo il getto delle torri. Non è una mano, è uno spazio. Ci sono il cielo e quella crosta ghiacciata, la grande muraglia con le lontane lunule delle cornici. Il cielo d’altronde non è che una montagna (di azzurro) bloccata contro la muraglia e una fuga di gigantesche cupole, di seni bianchi che sporgono e girano con un fumo di neve come un lichene solare.
Terminarono le rocce, ci congiungemmo all’uscita della via Lauper, e procedemmo sulle cornici  nevose che precedono la vetta. Man mano che avanzavo la cresta si faceva sempre più sottile, tanto da non permettere di unire i piedi. Una volta superato anche il tratto più aereo, mi volsi per vedere i due francesi fare gli equilibristi nel vuoto, mentre sullo sfondo, veli di nebbia avvolgevano il capo del Wetterhorn.
Tra queste imponenti montagne, dove l’audacia e l’imprudenza di Lammer entrarono nella storia riconobbi il monito severo, l’invito accorato da egli rivolto ai giovani alpinisti che poco più tardi vennero inghiottiti nel folle vortice di una guerra suicida.
Il nostro tempio è quassù: torreggia su pilastri colossali di granito, dall’eternità per l’eternità. Liberamente si curva su di esso come tetto l’etere infinito, verso di noi dall’altare raggiano l’antico luminare del cielo e le costellazioni.
Ed in quel tempio immacolato mi misi a pregare in silenzio, a ringraziare Dio per avermi donato una sì grande fortuna. Mi accovacciai un attimo, Gianni mi scattò una fotografia, ero finalmente sull’Eiger.
Restammo un attimo sulla vetta ad osservare il cono d’ombra della montagna stendersi sui prati della Kleine Sheidegg. Non scendemmo dalla via normale perché,  da quanto avevamo letto, era considerata troppo esposta ai pericoli oggettivi. Optammo per la cresta sud-ovest, abbastanza affilata, ma notevolmente più solida e sicura.  Vapori leggeri risalivano il versante meridionale mentre un sole impietoso cuoceva la neve sotto i colli dell’Eiger.
Caldo, fatica, cornici di ghiaccio, roccia affilata, l’ultimo colle e la stretta di mano con gli amici francesi. Scendemmo sulle dolci distese di ghiaccio, sotto la parete est del Monch che pareva un candido lenzuolo appeso nel cielo terso. Ora potevamo anche dialogare, allentare la tensione, sciogliere i muscoli nella lieve pendenza. Sapevo che quella sarebbe stata forse l’ultima ascensione che avrei compiuto quell’anno. Tre ore erano trascorse da quando avevamo raggiunto la vetta, circa sei dal momento in cui eravamo usciti dal nostro rifugio, eppure un velo di nostalgia balenò tra i miei pensieri, la  paura di non poter più rivivere simili emozioni, l’ansia di non riuscire a realizzare altri sogni. Ma fu soltanto un attimo, la voce di Gianni mi scosse. – Conta  il presente, perché rovinarlo con la nostalgia del passato o le apprensioni per il futuro? -  Eravamo lì, nel bel mezzo di un  ghiacciaio che si stendeva in piano per qualche chilometro, liscio, immenso, al centro un puntino arancione: una piccola tenda di nomadi delle montagne, tutto intorno le grandi vette dell’Oberland splendenti nel sole, perché rattristarsi? Risalimmo il Monchjoch sotto un sole cocente. Al valico incontrammo il rifugio, alpinisti, turisti, voli a noleggio e traversate tirolesi, poi l’imbocco della galleria allo Sphinx, negozi, sponsor e bandierine svizzera in ogni angolo. - Non c’era più tempo per meditare, ormai bisognava correre, mettersi in fila e non perdere il treno…
In un attimo scendemmo alla Kleine scheidegg. Ondate di aria calda salivano dai marciapiedi, folle di turisti sgomitavano. Nel vociare indistinto incalzavano le domande di turisti giapponesi avidi di dettagli sulla nostra ascensione. Cercai ancora un attimo di pace, poco discosto dalla ressa. Tra gli ombrelloni colorati dei bar alzai gli occhi verso l’Eiger, ne risalii la terribile parete con gli occhi fino ad incontrare il candido profilo delle creste sommitali e per un attimo restai, come sulla vetta, in silenzio ad osservarne il vasto orizzonte.

Respiro aria umida mentre strofino le mani gelate. Sembra non esserci più alcun motivo che mi inviti a proseguire. I due sci alpinisti presto ci raggiungono. Intorno ad un grosso masso sediamo in consiglio. Loro intendono tornare, noi proseguire. Non aggiungiamo altre parole alle opposte vedute, ci salutiamo cordialmente prima di essere reciprocamente inghiottiti dalla nebbia.
Aumentiamo il ritmo, il crocchiare della neve sotto i nostri passi rompe il silenzio, folate d’aria gelida mi appiccicano al corpo gli indumenti.
Sulla candida steppa qualche rara chiazza di luce illumina sbuffi di neve. Pieghiamo verso il crinale che conduce alla vetta. Nel cielo compare un disco appannato. Osservo un caotico ondeggiare di  nubi. Ancora folate, improvvise, pungenti come aghi sul volto. Le nebbie si fondono, si assottigliano, evaporano nell’azzurro del cielo mentre il sole irrompe sul manto nevoso. Un varco tra le nubi incornicia  vette imbiancate, d’azzurro si tinge il grigiore, l’estremo crinale nasconde l’abisso e noi, soli sulla cima, l’uno accanto all’altra, stendiamo i nostri sguardi su un mare di nebbie in tumulto.
Immergersi nel silenzio, abbracciare l’orizzonte con uno sguardo, respirare l’azzurro… essere uno con tutto ciò che ha vita, fare ritorno, in una beata dimenticanza di sé, nel tutto della natura: ecco il vertice dei pensieri e delle gioie, la sacra vetta del monte, il luogo della quiete perenne, dove il meriggio perde la calura e il tuono perde la sua voce; dove il mare ribollente somiglia all’ondeggiare di un campo di spighe.


giovedì 16 giugno 2011

Amilcare Crétier


25 luglio 1932. “Due sole parole prima di partire per la montagna. Io sono sicuro di tornare, ma l’uomo non sa nulla del proprio destino. Se io non tornassi dalla montagna, ti ordino cara Dorina, di essere forte nella vita. Non lasciarti abbattere dalla fine di tuo fratello, che, se è morto, è morto nell’azione, lottando per il suo ideale.”
Sono alcune frasi della lettera che Amilcare Crétier indirizzava alla sorella prima di partire per la Parete Nord delle Grandes Jorasses. Aveva 23 anni, la sua tempra di forte scalatore e di amante entusiasta della montagna, nonché l’apertura di numerose vie nuove lo consacravano tra i più forti alpinisti italiani di quel tempo.
Amilcare Crétier nacque a Verrès nel 1909, fin da giovanissimo manifestò quella predisposizione e quell’amore verso la montagna che lo accompagnarono negli anni a venire. A dodici anni aveva già salito le montagne facili che sovrastano Champdepraz, e nonostante morì giovane (nel 1933), nella sua breve esistenza, riuscì ad aprire 51 vie nuove, per la gran parte in Valle d’Aosta.
Fra le imprese maggiori in prima assoluta, vanno annoverate la parete Nord-est della Grivola, compiuta a soli diciassette anni nel 1929, La Pointe Crétier (già “Vierge” des Dame Anglaises), nel 1928. Il Mont Maudit per la parete Sud-Est, nel 1929, il Gran Paradiso per la Parete Nord-Ovest, nel 1930 e l’Aiguille Noire de Peutérey per la parete Sud, nel 1932.
Gli furono compagni d’ascensione nomi illustri dell’alpinismo di quell’epoca, come Renato Chabod, il cugino Lino Binel, Basilio Ollietti , Luigi Carrel (Carrellino), Antonio Gaspard, Maurizio Bich, i fratelli Charrey.
Con Amilcare Crétier l’alpinismo valdostano si evolvette, cambiò radicalmente quei caratteri esplorativi che fino a quel periodo ne costituivano l’essenza, in un’attività sportiva, anche se in senso lato, per molti versi moderna ed attuale. Al di là del movente della conquista, del superamento delle difficoltà e dell’appagamento fisico-atletico, alla base c’era pur sempre un grande amore verso la montagna. Quell’amore che con mirabile maestria Giuseppe Mazzotti ha descritto più volte nella biografia di Amilcare, dal titolo Montagnes Valdotaines. Sono pagine semplici, commoventi, autentiche, come lo è il racconto del recupero dei corpi di due alpinisti tedeschi caduti dalla parete Nord dei Drus, al quale partecipò Amilcare, Lino Binel, Renato Chabod, Gabriele Boccalatte con la sua compaga Ninì Pietrasanta. Soli, sul ghiacciaio si trovano a vegliare i due corpi senza vita, nel silenzio della montagna, che tutto circonda si leva un canto sommesso, è il canto d’amore che al di là della diversa nazionalità unisce gli aplinisti in una sola voce: “Amilcare tira fuori dal sacco una ciotola di legno, una piccola grolla, usata dai valdostani per le tradizionali bevute: è una tazza che fa il giro della compagnia passando da l’uno all’altro, in pegno di amicizia. Egli se ne è fatta fare una piccola, che porta sempre con sé. La riempie di cognac e la porge a Schreiner, che d’un colpo la vuota. La riempie di nuovo, ne beve un sorso e la porge a Gabriele. Da l’uno all’altro la tazza fa il giro intorno ai morti. Viene la sera: l’ombra, salita dalle valli, ha già invaso il ghiacciaio. Sopra di loro la tremenda parete Nord dei Drus si alza verticale, altissima. Il sole sta sparendo dietro i monti. Nell’aria limpida solo le punte più alte restano accese per un poco; e intanto una strana luce verde e azzurra avvolge le nevi, le rocce, le loro stesse persone. Dopo un poco, non resta che il muto brillare delle stelle nel cielo.
Allora, in quel silenzio, si sente una voce, un canto sommesso che si fa sempre più forte e sicuro. Sembra venir dai ghiacciai. Quegli uomini seduti intorno ai compagni morti cantano. Cantano la canzone della valle lontana, quella che i caduti, sopra ogni altra, amavano:
Zillerthal
Du bist mein freud
Il canto si spande armonioso, le rupi lo rimandano dall’una all’altra: riempie le gole, sale nel buio della notte a conquistare la grande parete dei Drus: O Valle dello Ziller, tu sei la mia gioia!”
Nel libro di Giuseppe Mazzotti sono molte le pagine ricche di valori autentici e sentimenti di vera amicizia, le si gusta in modo particolare pensando che non appartengono alla fantasia, ma ad un'esperienze concreta quale è stata la vita di Amilcare.
Delle numerose e grandi imprese compiute da Amilcare Crètier è possibile farsi un’idea sfogliando le pagine del suo Diario Alpinistico che il CAI di Verrès ha pubblicato nel 1993. E’ un prezioso documento capace di immergere il lettore nell’atmosfera dell’alpinismo tra le due guerre, una testimonianza dei profondi cambiamenti che l’alpinismo valdostano in primo luogo ed in secondo luogo italiano stava attraversando, per mano di quegli alpinisti che, come Amilcare e i suoi compagni, ridavano slancio e prestigio internazionale a questa meravigliosa passione.
Una attenta analisi del diario serve a far emergere quei caratteri che resero celebre l'azione di Amilcare, un'azione carica di ideale e di slancio entusiastico contagioso. Da un punto di vista storico l'approccio di Amilcare alla montagna rientra in quell'epopea eroica aperta dall'esperienza maturata dalle ascensioni senza guida che portò alla successiva fondazione del Club Alpino Accademico Italiano di cui, a giusto titolo, fece parte. Il periodo tra le due guerre in cui si concentrò l'attività di Amilcare non fu altro che la realizzazione più completa di quelle premesse che erano state gettate dai primi accademici, pionieri a loro volta di un alpinismo fino ad allora ad appannaggio di guide e clienti. Il superamento di questo assetto tradizionale, fino allora ritunuto immutabile, fece in modo di aprire la strada a nuove sfide fino allora ritenute impossibili.
Una conferma di quanto detto la si può rinvenire nelle parole di Armando Biancardi nella prefazione al Diario Alpinistico di Amilcare: “Crétier era essenzialmente un romantico, con caratteristiche venature di umorismo ed una testardaggine tipicamente valdostana. Egli andava in montagna per dare a se stesso delle occasioni di coraggio, di energia, di perseveranza. Bisogna essere coraggiosissimi - egli diceva - osare molto, ardire, essere testardi, ma pur sempre prudenti. Si muore una volta sola purtroppo! (…) Tutti quelli che lo hanno conosciuto, sanno che Amilcare Crétier non andava sui monti per giocare con la morte. Egli ripeteva a memoria quello che fu detto da Henry Bordeaux: “Ce n’est pas avec la mort qu’on joue. On empeche tout simplement son coeur de s’atrophier”.
Purtroppo proprio mente si stava affermando come il più forte alpinista valdostano di quel tempo la sorte lo rapiva dalla sua avventura terrena, proprio sulla montagna che più di ogni altra gli era nel cuore: il Cervino.
Il 7 luglio del 1933 Amilcare Crétier con Antonio Gaspard e Basilio Ollietti attaccavano la Cresta De Amicis del Cervino, con l’intento di riuscire a completarla salendo al Pic Tyndall. Questa cresta era già stata percorsa in precedenza da Ugo De Amicis, da cui prende il nome, tuttavia rimaneva da vincere ancora l’ultimo risalto al di sopra della Cravate, al fine di completare la via ed uscire in vetta al Pic Tyndall. L’impresa riuscì ad Amilcare ed ai suoi compagni, ma nella discesa, una placca di neve malferma li fece precipitare per settecento metri in basso, ai piedi della parete. …Li trovarono all’alba di mercoledì, sotto il Pic Tyndall, ancora legati… nel sacco di Crétier fu trovata la macchina fotografica, con una pellicola impressionata. Cinque fotografie erano state prese durante la salita. (…) Nell’ultima si vedono Gaspard e Cretier addossati a un mucchio di neve. E’ mossa e sfocata. Gaspard, seduto, e un poco chinato, ha in mano un temperino, e nell’altra, pare, una fetta di pane. I suoi occhiali neri col bordo d’alluminio, sono tirati sul berretto. Ha le guance scavate e un aspetto di molta stanchezza. Davanti a lui si vede un sacco gonfio.
Crétier è in piedi, dietro a Gaspard. Anche lui appare stanco. Appoggia il gomito sinistro sulla neve, sopra un altro sacco. Tiene una sigaretta fra le dita. Si scorgono chiazze di neve e roccelontane, confuse. Ogni cosa è avvolta da un’aria che ricorda certe albe grigie dopo qualche bivacco. Forse avevano bivaccato in quel posto…
E’ l’ultima immagine che resta di Amilcare e dei suoi compagni, di un’avventura gloriosa che però ne spezzò l’esistenza. Vennero sepolti uno accanto all’altro il 14 luglio del 1933 nel piccolo cimitero di Valtournanche.
Il Cervino era stato salito per la prima volta da Whymper, proprio in quel giorno di venerdì, 14 luglio del 1865. Erano passati 68 anni. Adesso la storia del Cervino era proprio finita.
Di Amilcare rimangono le imprese che lo hanno reso celebre, il suo ricordo sarà per sempre uno stimolo ad amare la montagna come lui l’ha amata e vissuta, apprezzandone ogni aspetto, manifestando un particolare attaccamento alla sua terra. Per questo penso sia appropriato congedarmi da questa semplice chiacchierata con una delle pagine che più mi hanno colpito nella lettura del libro Montagnes Valdotaines che più volte ho citato. E’ la descrizione di un tramonto ammirato dall’Alpe di Pana, uno dei tanti che probabilmente Amilcare ha visto quando da piccolo vi soggiornava. Forse in quelle parole anche a voi sembrerà facile scorgere il perché di un amore così profondamente autentico.
La valle è già colma d’ombra che sale insensibile. Laggiù sono i paesi, le strade, la vita, ma è come se tutto fosse in fondo al mare. Nessun suono viene attraverso l’aria che si fa scura. Le cime dei monti si accendono di color rosso, di color viola nel cielo verde. Il Cervino è ancora illuminato, i ghiacciai del Rosa sono incandescenti. Hanno i colori del rame. Poi diventano di pallido lilla, si spengono a poco a poco. Come dell’ultima brace sul focolare, non resta di essi che cenere. Silenziosi sprofondano nel buio della notte.
“Voici venir la nuit
  là haut sul les montagnes”…

Massimiliano Fornero

I Santi di Ghiaccio

Davanti al prato di Sant’Orso, in fondo alla Valleille, le montagne si alzano imponenti, luccicanti di ghiaccio; dai profili familiari scende una brezza a scuotere la calura, attraversa l’ampia distesa di erbe dalle diverse fragranze e giunge fino a noi, intenti a respirare il profumo dei ricordi. Tutte le montagne racchiudono nel loro silenzio le parole, i sorrisi e i pensieri che le hanno attraversate, e quando si è di fronte ad una soltanto di esse, per un attimo, sembra di sentire piano sussurrare le parole e colorarsi di nuove tinte quei gesti che hanno reso indimenticabile una giornata della nostra vita.
Profumo di larici, sole ed ombra tra i rami, poi la polvere e il profumo aspro e dolce insieme di qualche erba nascosta, macchie di rododendro, magri pascoli inondati di sole, e noi che saliamo carichi al Money e di tanto in tanto leviamo lo sguardo verso l’azzurro, profondo, misterioso.
Gente coricata sui prati ci saluta, altri allegri discendono in gran fretta la ripida morena che in passato conteneva la lingua ghiacciata del Coupè de Money, poi le ultime rocce nascondono il bivacco, solitario, sospeso tra il cielo e la valle, all’apparenza irraggiungibile.
Ci lasciamo cullare dalle rocce calde e lisce intorno al bivacco, e troviamo il tempo per godere  il lento trascorrere delle ore tra un soffio di vento e le bizzarre evoluzioni di una nuvola in cielo.
Poi la luce piano piano abbandona la valle, il ghiacciaio e le vette più alte; ora soffia un vento più freddo, a tratti si sente acqua scrosciare, il torrente saltare sulle rocce e vapori in continuo movimento avvolgono creste e lasciano a tratti scoprire qualche vetta solitaria. Regna la pace nel cielo e nei cuori, e la notte dilata lo spazio, tutto è più lontano, gigantesco e selvaggio. Solo una luce dalla piccola finestra del bivacco si perde nella notte, siamo soli, eppure quella solitudine non ci pesa, allegri come siamo, felici di stare vicini alle montagne che amiamo.
Le parole si inseguono, risa allegre rompono il silenzio e la poca luce, che illumina i nostri volti, scopre nuovi profili, semplici, genuini, autentici. Poi le frasi si fanno più rade ed un salutare torpore ci invita a godere il calore di soffici coperte. Si sta in silenzio, mentre i pensieri accompagnano la mente in viaggi improbabili, le distanze non sembrano più esistere... Incontri fantastici, pareti sconosciute, montagne la cui forma è un miscuglio di altre già viste e poi, un chiarore, una luce ovattata che ipnotizza gli occhi stropicciati dal sonno… poi, un’alba senza sole, di nuvole sospese a mezz’aria che passano lente e risalgono i pendii fino a scomparire sul ghiacciaio.
Si sente odore di terra umida, rumore di rocce malferme e acqua, la stessa che sentivamo scrosciare la sera prima ed ora passa sotto i nostri piedi; sopra, la coltre grigia del ghiacciaio riflette il colore delle nuvole, e più in alto la Torre di Sant’Orso e il Dito degli Apostoli, si fondono nel grigiore metallico, tra il cielo e la neve.

Ascoltiamo suoni di lame che mordono il ghiaccio: sono i nostri ramponi alla prova sotto il Colle Paganini. La salita è ripida, uniforme, poi la sorpresa: dal colle s’innalzano in fila i Santi di ghiaccio: le Torri di Sant’Orso, di Sant’Andrea e del Gran San Pietro, ed il cielo si fa azzurro: è l’augurio di un nuovo giorno, il saluto semplice di un mondo senza false cortesie.
Ormai ci vediamo già arrampicare sulla cresta che conduce alla Torre di Sant’Andrea, su massi malfermi, stagliati contro il cielo sull’estrema via che conduce alla vetta; il desiderio è così forte che supera l’immaginazione. La roccia è lucente, ruvida e primitiva, viene da stringerla a se in uno slancio di affetto sconfinato, poi  nuvole,  sole e  cielo: quale luogo sulla terra offre un così intimo contatto con l’infinito?
Qui non siamo soli, i monti ci guardano, e immobili  ascoltano una preghiera, parole che si perdono nelle valli, risuonano sommesse in mille anfratti della roccia, risalgono in cielo. Ora, a ricordare chi non c’è più, nascosto sotto il masso più alto della vetta, il nostro biglietto riporta il nome di un amico.
Ed anche se un giorno la tempesta, il gelo o la neve cancelleranno ogni traccia di quel segno di carta, la Torre di Sant’Andrea lassù, brillando alla luce del sole, conserverà gelosa i nostri ricordi, le emozioni di quella giornata ed una preghiera così profonda che per un attimo ha unito, in una sola, le nostre voci.

Dedicato ad Antonio Sonza.