Il Cervino

Il Cervino
Cervino dalla Rothornhutte

giovedì 16 giugno 2011

Amilcare Crétier


25 luglio 1932. “Due sole parole prima di partire per la montagna. Io sono sicuro di tornare, ma l’uomo non sa nulla del proprio destino. Se io non tornassi dalla montagna, ti ordino cara Dorina, di essere forte nella vita. Non lasciarti abbattere dalla fine di tuo fratello, che, se è morto, è morto nell’azione, lottando per il suo ideale.”
Sono alcune frasi della lettera che Amilcare Crétier indirizzava alla sorella prima di partire per la Parete Nord delle Grandes Jorasses. Aveva 23 anni, la sua tempra di forte scalatore e di amante entusiasta della montagna, nonché l’apertura di numerose vie nuove lo consacravano tra i più forti alpinisti italiani di quel tempo.
Amilcare Crétier nacque a Verrès nel 1909, fin da giovanissimo manifestò quella predisposizione e quell’amore verso la montagna che lo accompagnarono negli anni a venire. A dodici anni aveva già salito le montagne facili che sovrastano Champdepraz, e nonostante morì giovane (nel 1933), nella sua breve esistenza, riuscì ad aprire 51 vie nuove, per la gran parte in Valle d’Aosta.
Fra le imprese maggiori in prima assoluta, vanno annoverate la parete Nord-est della Grivola, compiuta a soli diciassette anni nel 1929, La Pointe Crétier (già “Vierge” des Dame Anglaises), nel 1928. Il Mont Maudit per la parete Sud-Est, nel 1929, il Gran Paradiso per la Parete Nord-Ovest, nel 1930 e l’Aiguille Noire de Peutérey per la parete Sud, nel 1932.
Gli furono compagni d’ascensione nomi illustri dell’alpinismo di quell’epoca, come Renato Chabod, il cugino Lino Binel, Basilio Ollietti , Luigi Carrel (Carrellino), Antonio Gaspard, Maurizio Bich, i fratelli Charrey.
Con Amilcare Crétier l’alpinismo valdostano si evolvette, cambiò radicalmente quei caratteri esplorativi che fino a quel periodo ne costituivano l’essenza, in un’attività sportiva, anche se in senso lato, per molti versi moderna ed attuale. Al di là del movente della conquista, del superamento delle difficoltà e dell’appagamento fisico-atletico, alla base c’era pur sempre un grande amore verso la montagna. Quell’amore che con mirabile maestria Giuseppe Mazzotti ha descritto più volte nella biografia di Amilcare, dal titolo Montagnes Valdotaines. Sono pagine semplici, commoventi, autentiche, come lo è il racconto del recupero dei corpi di due alpinisti tedeschi caduti dalla parete Nord dei Drus, al quale partecipò Amilcare, Lino Binel, Renato Chabod, Gabriele Boccalatte con la sua compaga Ninì Pietrasanta. Soli, sul ghiacciaio si trovano a vegliare i due corpi senza vita, nel silenzio della montagna, che tutto circonda si leva un canto sommesso, è il canto d’amore che al di là della diversa nazionalità unisce gli aplinisti in una sola voce: “Amilcare tira fuori dal sacco una ciotola di legno, una piccola grolla, usata dai valdostani per le tradizionali bevute: è una tazza che fa il giro della compagnia passando da l’uno all’altro, in pegno di amicizia. Egli se ne è fatta fare una piccola, che porta sempre con sé. La riempie di cognac e la porge a Schreiner, che d’un colpo la vuota. La riempie di nuovo, ne beve un sorso e la porge a Gabriele. Da l’uno all’altro la tazza fa il giro intorno ai morti. Viene la sera: l’ombra, salita dalle valli, ha già invaso il ghiacciaio. Sopra di loro la tremenda parete Nord dei Drus si alza verticale, altissima. Il sole sta sparendo dietro i monti. Nell’aria limpida solo le punte più alte restano accese per un poco; e intanto una strana luce verde e azzurra avvolge le nevi, le rocce, le loro stesse persone. Dopo un poco, non resta che il muto brillare delle stelle nel cielo.
Allora, in quel silenzio, si sente una voce, un canto sommesso che si fa sempre più forte e sicuro. Sembra venir dai ghiacciai. Quegli uomini seduti intorno ai compagni morti cantano. Cantano la canzone della valle lontana, quella che i caduti, sopra ogni altra, amavano:
Zillerthal
Du bist mein freud
Il canto si spande armonioso, le rupi lo rimandano dall’una all’altra: riempie le gole, sale nel buio della notte a conquistare la grande parete dei Drus: O Valle dello Ziller, tu sei la mia gioia!”
Nel libro di Giuseppe Mazzotti sono molte le pagine ricche di valori autentici e sentimenti di vera amicizia, le si gusta in modo particolare pensando che non appartengono alla fantasia, ma ad un'esperienze concreta quale è stata la vita di Amilcare.
Delle numerose e grandi imprese compiute da Amilcare Crètier è possibile farsi un’idea sfogliando le pagine del suo Diario Alpinistico che il CAI di Verrès ha pubblicato nel 1993. E’ un prezioso documento capace di immergere il lettore nell’atmosfera dell’alpinismo tra le due guerre, una testimonianza dei profondi cambiamenti che l’alpinismo valdostano in primo luogo ed in secondo luogo italiano stava attraversando, per mano di quegli alpinisti che, come Amilcare e i suoi compagni, ridavano slancio e prestigio internazionale a questa meravigliosa passione.
Una attenta analisi del diario serve a far emergere quei caratteri che resero celebre l'azione di Amilcare, un'azione carica di ideale e di slancio entusiastico contagioso. Da un punto di vista storico l'approccio di Amilcare alla montagna rientra in quell'epopea eroica aperta dall'esperienza maturata dalle ascensioni senza guida che portò alla successiva fondazione del Club Alpino Accademico Italiano di cui, a giusto titolo, fece parte. Il periodo tra le due guerre in cui si concentrò l'attività di Amilcare non fu altro che la realizzazione più completa di quelle premesse che erano state gettate dai primi accademici, pionieri a loro volta di un alpinismo fino ad allora ad appannaggio di guide e clienti. Il superamento di questo assetto tradizionale, fino allora ritunuto immutabile, fece in modo di aprire la strada a nuove sfide fino allora ritenute impossibili.
Una conferma di quanto detto la si può rinvenire nelle parole di Armando Biancardi nella prefazione al Diario Alpinistico di Amilcare: “Crétier era essenzialmente un romantico, con caratteristiche venature di umorismo ed una testardaggine tipicamente valdostana. Egli andava in montagna per dare a se stesso delle occasioni di coraggio, di energia, di perseveranza. Bisogna essere coraggiosissimi - egli diceva - osare molto, ardire, essere testardi, ma pur sempre prudenti. Si muore una volta sola purtroppo! (…) Tutti quelli che lo hanno conosciuto, sanno che Amilcare Crétier non andava sui monti per giocare con la morte. Egli ripeteva a memoria quello che fu detto da Henry Bordeaux: “Ce n’est pas avec la mort qu’on joue. On empeche tout simplement son coeur de s’atrophier”.
Purtroppo proprio mente si stava affermando come il più forte alpinista valdostano di quel tempo la sorte lo rapiva dalla sua avventura terrena, proprio sulla montagna che più di ogni altra gli era nel cuore: il Cervino.
Il 7 luglio del 1933 Amilcare Crétier con Antonio Gaspard e Basilio Ollietti attaccavano la Cresta De Amicis del Cervino, con l’intento di riuscire a completarla salendo al Pic Tyndall. Questa cresta era già stata percorsa in precedenza da Ugo De Amicis, da cui prende il nome, tuttavia rimaneva da vincere ancora l’ultimo risalto al di sopra della Cravate, al fine di completare la via ed uscire in vetta al Pic Tyndall. L’impresa riuscì ad Amilcare ed ai suoi compagni, ma nella discesa, una placca di neve malferma li fece precipitare per settecento metri in basso, ai piedi della parete. …Li trovarono all’alba di mercoledì, sotto il Pic Tyndall, ancora legati… nel sacco di Crétier fu trovata la macchina fotografica, con una pellicola impressionata. Cinque fotografie erano state prese durante la salita. (…) Nell’ultima si vedono Gaspard e Cretier addossati a un mucchio di neve. E’ mossa e sfocata. Gaspard, seduto, e un poco chinato, ha in mano un temperino, e nell’altra, pare, una fetta di pane. I suoi occhiali neri col bordo d’alluminio, sono tirati sul berretto. Ha le guance scavate e un aspetto di molta stanchezza. Davanti a lui si vede un sacco gonfio.
Crétier è in piedi, dietro a Gaspard. Anche lui appare stanco. Appoggia il gomito sinistro sulla neve, sopra un altro sacco. Tiene una sigaretta fra le dita. Si scorgono chiazze di neve e roccelontane, confuse. Ogni cosa è avvolta da un’aria che ricorda certe albe grigie dopo qualche bivacco. Forse avevano bivaccato in quel posto…
E’ l’ultima immagine che resta di Amilcare e dei suoi compagni, di un’avventura gloriosa che però ne spezzò l’esistenza. Vennero sepolti uno accanto all’altro il 14 luglio del 1933 nel piccolo cimitero di Valtournanche.
Il Cervino era stato salito per la prima volta da Whymper, proprio in quel giorno di venerdì, 14 luglio del 1865. Erano passati 68 anni. Adesso la storia del Cervino era proprio finita.
Di Amilcare rimangono le imprese che lo hanno reso celebre, il suo ricordo sarà per sempre uno stimolo ad amare la montagna come lui l’ha amata e vissuta, apprezzandone ogni aspetto, manifestando un particolare attaccamento alla sua terra. Per questo penso sia appropriato congedarmi da questa semplice chiacchierata con una delle pagine che più mi hanno colpito nella lettura del libro Montagnes Valdotaines che più volte ho citato. E’ la descrizione di un tramonto ammirato dall’Alpe di Pana, uno dei tanti che probabilmente Amilcare ha visto quando da piccolo vi soggiornava. Forse in quelle parole anche a voi sembrerà facile scorgere il perché di un amore così profondamente autentico.
La valle è già colma d’ombra che sale insensibile. Laggiù sono i paesi, le strade, la vita, ma è come se tutto fosse in fondo al mare. Nessun suono viene attraverso l’aria che si fa scura. Le cime dei monti si accendono di color rosso, di color viola nel cielo verde. Il Cervino è ancora illuminato, i ghiacciai del Rosa sono incandescenti. Hanno i colori del rame. Poi diventano di pallido lilla, si spengono a poco a poco. Come dell’ultima brace sul focolare, non resta di essi che cenere. Silenziosi sprofondano nel buio della notte.
“Voici venir la nuit
  là haut sul les montagnes”…

Massimiliano Fornero

I Santi di Ghiaccio

Davanti al prato di Sant’Orso, in fondo alla Valleille, le montagne si alzano imponenti, luccicanti di ghiaccio; dai profili familiari scende una brezza a scuotere la calura, attraversa l’ampia distesa di erbe dalle diverse fragranze e giunge fino a noi, intenti a respirare il profumo dei ricordi. Tutte le montagne racchiudono nel loro silenzio le parole, i sorrisi e i pensieri che le hanno attraversate, e quando si è di fronte ad una soltanto di esse, per un attimo, sembra di sentire piano sussurrare le parole e colorarsi di nuove tinte quei gesti che hanno reso indimenticabile una giornata della nostra vita.
Profumo di larici, sole ed ombra tra i rami, poi la polvere e il profumo aspro e dolce insieme di qualche erba nascosta, macchie di rododendro, magri pascoli inondati di sole, e noi che saliamo carichi al Money e di tanto in tanto leviamo lo sguardo verso l’azzurro, profondo, misterioso.
Gente coricata sui prati ci saluta, altri allegri discendono in gran fretta la ripida morena che in passato conteneva la lingua ghiacciata del Coupè de Money, poi le ultime rocce nascondono il bivacco, solitario, sospeso tra il cielo e la valle, all’apparenza irraggiungibile.
Ci lasciamo cullare dalle rocce calde e lisce intorno al bivacco, e troviamo il tempo per godere  il lento trascorrere delle ore tra un soffio di vento e le bizzarre evoluzioni di una nuvola in cielo.
Poi la luce piano piano abbandona la valle, il ghiacciaio e le vette più alte; ora soffia un vento più freddo, a tratti si sente acqua scrosciare, il torrente saltare sulle rocce e vapori in continuo movimento avvolgono creste e lasciano a tratti scoprire qualche vetta solitaria. Regna la pace nel cielo e nei cuori, e la notte dilata lo spazio, tutto è più lontano, gigantesco e selvaggio. Solo una luce dalla piccola finestra del bivacco si perde nella notte, siamo soli, eppure quella solitudine non ci pesa, allegri come siamo, felici di stare vicini alle montagne che amiamo.
Le parole si inseguono, risa allegre rompono il silenzio e la poca luce, che illumina i nostri volti, scopre nuovi profili, semplici, genuini, autentici. Poi le frasi si fanno più rade ed un salutare torpore ci invita a godere il calore di soffici coperte. Si sta in silenzio, mentre i pensieri accompagnano la mente in viaggi improbabili, le distanze non sembrano più esistere... Incontri fantastici, pareti sconosciute, montagne la cui forma è un miscuglio di altre già viste e poi, un chiarore, una luce ovattata che ipnotizza gli occhi stropicciati dal sonno… poi, un’alba senza sole, di nuvole sospese a mezz’aria che passano lente e risalgono i pendii fino a scomparire sul ghiacciaio.
Si sente odore di terra umida, rumore di rocce malferme e acqua, la stessa che sentivamo scrosciare la sera prima ed ora passa sotto i nostri piedi; sopra, la coltre grigia del ghiacciaio riflette il colore delle nuvole, e più in alto la Torre di Sant’Orso e il Dito degli Apostoli, si fondono nel grigiore metallico, tra il cielo e la neve.

Ascoltiamo suoni di lame che mordono il ghiaccio: sono i nostri ramponi alla prova sotto il Colle Paganini. La salita è ripida, uniforme, poi la sorpresa: dal colle s’innalzano in fila i Santi di ghiaccio: le Torri di Sant’Orso, di Sant’Andrea e del Gran San Pietro, ed il cielo si fa azzurro: è l’augurio di un nuovo giorno, il saluto semplice di un mondo senza false cortesie.
Ormai ci vediamo già arrampicare sulla cresta che conduce alla Torre di Sant’Andrea, su massi malfermi, stagliati contro il cielo sull’estrema via che conduce alla vetta; il desiderio è così forte che supera l’immaginazione. La roccia è lucente, ruvida e primitiva, viene da stringerla a se in uno slancio di affetto sconfinato, poi  nuvole,  sole e  cielo: quale luogo sulla terra offre un così intimo contatto con l’infinito?
Qui non siamo soli, i monti ci guardano, e immobili  ascoltano una preghiera, parole che si perdono nelle valli, risuonano sommesse in mille anfratti della roccia, risalgono in cielo. Ora, a ricordare chi non c’è più, nascosto sotto il masso più alto della vetta, il nostro biglietto riporta il nome di un amico.
Ed anche se un giorno la tempesta, il gelo o la neve cancelleranno ogni traccia di quel segno di carta, la Torre di Sant’Andrea lassù, brillando alla luce del sole, conserverà gelosa i nostri ricordi, le emozioni di quella giornata ed una preghiera così profonda che per un attimo ha unito, in una sola, le nostre voci.

Dedicato ad Antonio Sonza.